Ennesimo oggetto alieno da casa Snowdonia, The Egotrip Of The Egokid: festa di suono sfrigolante, sinuosa fauna citazionista, il brio impertinente dell'ispirazione giovane. Ne sono autori cinque ragazzi from Milano, innamorati - parole loro - di Bowie e Hammill (e si sente), di Jeff Buckley (e si sente un pò meno), oppure - mi sembra - dei primi Roxy Music e Radiohead (quelli tra il dolce Pablo e il futuro dietro l'angolo). La loro impellenza, l'entusiasmo briccone e impetuoso, il sapiente melange di modernariato bluesy e fragranze ipermoderne, meriterebbero ben altri esiti, ben più numerose orecchie da pascere. Glielo auguro di cuore, ma - naturalmente - sarà dura. Intanto, a noi che abbiamo tempo ed energie da perdere intorno alla cosa che più amiamo al mondo, tocca godere da privilegiati questo viaggio popedelico (chitarre, batteria, organi, tastierine, microchip...) in dieci assalti più uno, non mancando quale ghost track (il titolo dovrebbe essere Mortingurda) una lunga camera di decompressione, impalpabile crittogramma sintetico/valvolare o, se preferite, provvida implosione di glitch deteriorato. Godere, dicevo, ed è la parola giusta: dalla complessità frizzante di Belagente (sovrapposizione sorniona di corde acustiche, tastiere ionosferiche e crude distorsioni emo, intanto che il testo pettina sordido una scomoda scelleratezza à la Lou Reed) al sottofinale della title-track (onde lunghe psych, ipnosi hip-hop, omeopatia lounge tra planate Spiritualized) passando per le agri follie di Burdizzo Bloodless Castrator (valzer cazzuto per neo-eunuchi felicemente trans-itanti), Kamomilla-W (partenza glam, quindi lenta trasfigurazione tra tossici sciroppi psych e delirio intimo psicolabile) e la "maisiana" Girl From Venus (iniettata d'acide cromature spacey), il programma è un caleidoscopio accomodante e pernicioso in ugual misura, una leccata al francobollo e spedire all'altro lato dell'incoscienza, dove esiste un disequilibrio per ogni fermezza, un dubbio per ogni convincimento, uno scazzo versicolore per ogni amara indignazione. Trapela appena troppa riverenza, un certo formalismo timoroso e quindi ciarliero dai muri d'inquietudine eretti in Grey, come sugli intarsi & riverberi fin troppo radioheaddiani di Helen. Voglio dire, le strutture non sembrano del tutto libere dal magnetismo "alternative" più in voga, ma sono sbavature perdonabilissime in un quadro che ha ben altri e alti motivi d'interesse: la bella vis interpretativa delle voci (gli angoli strozzati di Diego e la liquorosità malsana di Piergiorgio), la cavalcatura puntuale quando non accanita di strumenti e "macchine", la profondità e il dinamismo delle frequenze, il gusto per la bizzarria gratuita ma non insensata, insomma la cifra di una band presumibilmente in crescita e in effetti già piuttosto matura. (7/10)

Stefano Solventi