Ci ho pensato molto (oddìo, un bel pò) prima di decidermi se recensire o meno questo esordio snowdoniano per gli Orange. Principalmente perché mi è piaciuto, ne avrei quindi parlato bene e questo cozzava contro una mia (in)certa etica professionale (????), giacché col chitarrista-cantante-samplerista e chissà cos'altro Alex BakuniM ho incrociato le lame in un torneo di fantacalcio virtuale, concluso - in ossequio alla civetteria - con la vittoria della compagine guidata dal sottoscritto (la gloriosa A.C. Flaming Kicks).

Quindi, roso fino al bianco delle ossa dagli scrupoli in questi tempi e in questo Paese che riduce ogni conflitto a mera coincidenza (d'interessi), ho risolto la questione convincendomi che il lettore di S&A ha spalle larghe abbastanza per affrontare una recensione a rischio di partigianeria. Ebbene, fatelo, ma considerate l'eventualità che - sì - la buona impressione possa essermi sbocciata genuina, una delle tante corrispondenze d'amorosi sensi che il brulicante sottobosco italico sempre più mi provoca.

Insomma, come potrebbe essere altrimenti se ascoltando le tredici tracce in scaletta (peraltro fallata - volontariamente? - nel retro copertina) mi assalgono come spettri l'equino pazzo di Young in Ragged Glory, un Francis Black dall'alito ancora fetido d'incubo, o dei Thin White Rope ondeggianti in un'inconsistenza che è sì pochezza tecnico-produttiva ma anche straniante scelta stilistica?


Vale a dire, chitarre che ristagnano in un torpore agnostico per poi sorgere crepitanti in sella a foghe hardcore, voci al guinzaglio eppoi sguinzagliate in un lucido spasmo d'irriverente amarezza, la frenesia incorporea del drumming che s'incarica di contagiosi levare e furia sgrammaticata. Per non tacere la congerie di riff e asprezze cow punk contagiate da una bava di samples e fantasmagorie elettroniche, come omeopatie d'angoscia, ectoplasmi malefici, l'insidia del margine del quieto stare-accettare-corroborare.

Poco più di mezz'ora di toccante negazione, di stallo sull'orlo di una feroce sfiducia esistenziale, di scazzo nutritivo-combattivo cui Orange si votano appieno, in attesa di decidere se innescare la spoletta o lasciarsi minaccia per sempre, sorriso sferzante e dito nel culo.

Scorrono dunque riarticolazioni Husker Du-Black Flag (Telephone Song, Movies), evocazioni Sonic Youth (Head, Hernando De Soto), spettri cibernetici (Mars In A Mouse, The Earth Seen From The Moon), trasfigurazioni psichedelic-folk (Chicken Soup, A Beggar Dream). Degnissima di menzione la pseudo suite iniziale (In carnival times-Me and my pig-Song of the cock), che parte come dei Calexico cannibali (presta voce, indolenza & impertinenza Cinzia La Fauci), prosegue fuzzando ascendenze Polvo per atterrare dissonante in una nevrastenia David Byrne (il primissimo), tra corde crude che dipanano un arpeggio lucido-allucinato alla Robyn Hitchcock.

Perversioni e amori, malefici e spettacoli, loser atroci e scimmie dal culo d'asino. Il tutto in poco più di mezz'ora. Più o meno imperdibile. (7.5/10)

Stefano Solventi