The Orange agganciano in abbraccio l'arte sonora postmoderna di prim'ordine e l'arrangiano in forme variegate e multiformi di puzzose canzoni spaziali. Lo fanno con attitudine rock brada e schietta. Dimostrandosi all'altezza di un talento che paiono avere e che molto ci interesserà in avvenire. Pretenziosi quanto le effettive possibilità. Gli occhi abbacinati dal monitor. Pare ci stiano dentro. E questa è una grande notizia in genere e una buona nuova da casa Snowdonia che sembra accorgersene e sfoderare la più bella copertina da un bel pò di tempo a questa parte; loro che al progetto grafico che accompagna il loro fare underground stanno tanto attenti da dargli un' unitarietà visibilissima. The Orange sono artisti italiani naturalmente postmoderni e genuinamente provinciali che hanno realizzato un disco indirizzabilissimo ad un qualsiasi pubblico americano (e quindi credo pure europeo) che segue le etichette indy che in Italia abbiamo imparato (ci hanno insegnato) ad amare tanto. Gli hanno pure dato, al disco in questione, un titolo azzeccatissimo: dentro c'è il carnascialesco e diversi cosmi. Cosmi piuttosto caotici ma cosmi. Cosmi pulviscolari di miliardi di suoni sentiti, cercati, imbattuti. Cosmi frammentati d'intelligenza (la propria e l'altrui) che non ce la fa. Microcosmi da cameretta. Cosmi pulsanti di ritmo. Cosmi simpatici ma incerti fra noia e gioia. Cosmi alla deriva del T/tempo, della centralità, della psiche. Briciole di cosmi rinsecchiti e sfarinati a volte rimesse a bagno. Grumi di cosmi che è un piacere vedere come non ce la fanno a stare insieme ed è bello vedere che a volte ce la fanno a stare insieme.

Come ogni grande esordio di gruppi con personalità e cose da dire, urgenze di comunicare e di dimostrare, il disco reca in sé (per questo pur essendo così naif, così mancante di produzione professionale, così pieno di strutture incoerenti a se stesse che sembrano sfaldarsi e staccarsi per ricomporsi immediatamente, è un disco che mantiene un'unitarietà e financo, non vorrei esagerare fino allo sbaglio, frastornato dagli ascolti ripetuti, un filo fatto di sostanza che lo lega da cima a fondo) quella voglia di dire tutto in una volta, di mettere in atto una summa capace di esprimere tutto ciò che si è. Allora ecco il primo trittico: allora ecco echi di frontiere desertiche in levare brioso carnascialescomessianico, con drammatica ironia nei suoni a condire, eppoi il ritorno della calma e il sentore di viaggi spaziali. Poi si continua con la canzone a seguire. Piedi per terra, il cerchio d'una piazza in festa per la sagra: il vino, il sudore avvinazzato e i sogni di salcicce e un grugnire di porco (ricordate il suino cinese del capitano ) per una melodia barrettiana e una chitarra festosa con una altra allegra ed alticcia e un verso bellissimo in chiusura: cheering to aur cheery time again. Poi viene una canzone del cazzo, Song of the cock, che è estasi estiva e attrazione sessuale inebriata, è un blues canicolare in pieno temporale estivo. Fine del trittico carnevalesco. Intermezzo The incredibile phantasmagoria of Hernando de Soto, che ci mostra tra lo psichedelico e il delirio visionario amoroso femminile alcune chitarre arpeggiate, alcune leggermente straziate e suoni notturni, e spari a condire. Questo è l'esempio della differenza che farebbe l'avvento d'un produttore. Movies ci offre una tirata distruttiva ed arrabbiata che parte con basso in slap; inveisce contro la cinematografia industriale che produce stelle, divi e modelli comportamentali. Poi viene Hea e i ritmi e i toni sono ancora sostenuti. Telephone song chiude l'intermezzo. Il pezzo sarebbe anche bello peccato in certi passaggi le voci siano un pò seppellite sotto il missaggio.

Adesso comincia il tri(p)[ttico] cosmico e si è capito da un bel pò che questi ragazzi della provincia novarese hanno fatto sul serio. Ci introduce qualcosa di distensivo che non si sa come convive con un pizzico di inquietante, sarà per mantenere viva l'attenzione, si chiama The hearth seen from the moon, è solo strumentale ed è delizioso. Mars in a mouse è fatto di grovigli di suoni e stratificazione di confusione sgusciante, ammiccamenti al digitalelettronico e silenzi. Qualcosa proveniente da un Twin infinitives molto più gentile, molto più arioso, molto meno drogato, molto meno pesante, un pò più lucente, concentrato in 4 minuti e mezzo. Red planet si raddrizza e si pensa che se ci fosse stato un batterista vero coi controcazzi e sulla lunghezza d'onda degli altri due Orange si sarebbe sfiorata la fusione ridimensionata dei doppi storici Beefheart+Minutemen+Royal trux. Detto questo, aspetto trepidante cosa diranno i grandi critici italiani over cinquanta formatisi prepunk. C'è da aspettarsi un giudizio sincero? Perché no?

Prima della fine c'è un'altra accozzaglia in disfacimento: Chicken soup with Barley.

Alla fine si canta sotto la pioggia un idiota ritornello bagnato che suona bene. About the rain. Due minuti e quaranta di lavacro rock classicissimo che vanno a sciogliersi in men che non si dica. Poi il pezzo si ripiglia, venti secondi di ritornello e va a rituffarsi in ciò che prima si era sciolto. È il rock e chissà cos'altro in disfacimento. Musica, alla fine. Questo disco è un' opera cosmicomica. Un'epidemia biochimico-meccanico-digital-batteriologica nel codice genetico di tutto il rock italiano a venire, Carnival and cosmos è la/una risposta italiana al disco rock postmoderno di primi duemila, ora che si comincia a capire cosa saranno questi anni. Per i White stripes un elefante radicato. Qua un porco libero per lo spazio.

Giovanni Vernucci