The Finger (al secolo Franco Di Terlizi) è uno di quegli artisti maledettamente attaccati al passato. Le sue canzoni non vogliono inventare nulla. Non ci provano nemmeno. E forse, anche per questo, le si ama di più. Si ama il loro candore; la loro forza "innocua"...Questo suo disco d'esordio (senza contare l'autoproduzione di "Everyday Was Summer" del 1999, di cui vengono riprese alcune canzoni) mostra chiaramente la sua verve intimista, onirica, impreziosita da una voce flebile, ma come rosa dal di dentro da un dolore invisibile. The Finger è un cultore di se stesso: canta le sue emozioni, i suoi sogni, le sue paure. Tutto il suo mondo, sparso in queste 14 canzoni, è come un puzzle da ricostruire; ascolto dopo ascolto. I fragilissimi accordi dell'iniziale You Can Sleep Now, con tanto di sinuose e impercettibili spirali lisergiche, declinano un verbo perfettamente allineato con certo cantautorato folk degli ultimi anni (Sparklehorse? Will Oldham?). L'atmosfera di Alone In A Hole è vagamente gioiosa, salvo poi scoprire, sotto la crosta, una patina durissima di malinconia. Come, d'altra parte, in The Alien And The Sea (con un mirabile gioco di specchi tra la ferocia "astratta" di una chitarra elettrica e un bisbiglio "slide" in controluce). Rollercoaster volteggia romantica nel vuoto: nobile, superba ballata incantata. Il fantasma addomesticato di Neil Young troneggia tra i solchi di Song For P., andante e stordita: luccichio elettroacustico. Miraggio country-rock.

Sarà meglio ricordare, a questo punto, che The Finger, oltre a scrivere testi e musica, suona anche tutti gli strumenti. E lo fa piuttosto bene, a dire il vero. Basterebbe anche la sola When It Rains a confermarlo. In quest'ultima, il Nostro rivela una certa abilità nel dipingere con l'elettronica, mentre cerca con lo sguardo la Beta Band. La dolentissima Blue And Blue è il punto più "basso" dell'intero lotto: chitarra sfatta, armonica-lama nel cuore e un bordone di organo sintetico che si mangia la coda.

C'è profumo fresco d'estate, invece, nello splendido mid-tempo della traccia successiva. Le lunghe strade che portano lontano; non importa dove. A seguire, fa capolino la drum-machine, opposta a un brulicare insistente di chitarra elettrica (alcune incongruenze della track-list - volute? - non permettono di identificare i titoli di questi ultimi due brani). La struttura di Flying Back In Time, dal canto suo, è molto più sperimentale.

È "pop" intelligente e al contempo quasi autistico: insomma, quasi come se i Beach Boys di Pet Sounds rovistassero tra oscuri fondali "glitch". Old Dead Flowers è disincantata, quasi distratta e sonnambula nel suo incedere à la Pavement.

I sei minuti e passa di There And Back Again, tutta giocata su tenui accordi di chitarra, barlumi di organo e un canto "inespresso", rasentano una forma di malinconia quasi terminale, che è anche il leit-motiv di Until The Rain Comes, aperta da un divertissement elettronico-dadaista e forte di un ritornello che marchia a fuoco l'anima. Chiude Everyday Was Summer, in cui la chitarra assume una magniloquenza scintillante, protesa in un vuoto "metallico" in cui si riverbera anche il silenzio. Quello dello stupore. Quello che avvolge i sogni. In definitiva, un disco splendido, che non risparmia nessuno. Una volta entrati nei suoi labirinti, sarà difficile uscirne. E, in fondo, chi ne avrà più voglia?

Francesco Nunziata