E ora che mi sono ascoltato ben bene questo disco dei cesenati Aidoru, cosa pensarne? Cosa scrivere? Problema da poco, visto che una recensione in fondo non è altro che una recensione, mentre un disco, a volte, è qualcosa di molto importante. Questo disco, ad esempio.
Perché la quantità e qualità di sensazioni e rimandi a sensazioni di altre esperienze (non necessariamente "d'ascolto") può dare i brividi. Perché la distanza tra parola recitata e cantata, indagata e sputata, inscenata ed esalata, si sfalda continuamente per ricomporsi un attimo dopo. E poi scomporsi di nuovo.
Perché il senso di forma che smette di definirsi quando raggiunge l'apice emotivo, rimanendo in bilico sullo sforzo compositivo con quella grazia flagrante e talora aspra, suona come il frutto maturo di un'attitudine punk prestata all'art-rock, senza per questo sembrare per un solo istante fuori tempo (né - va da sé - fuori luogo). Un'ingenuità consapevolissima sovrintende tutto, una lucidità folle, la padronanza scellerata di un progetto scellerato, capace di suonare come se tutto il resto - il prima e il dopo, il "colto" e il "pop", il "pre" e il "post" - non importasse più. C'entra senz'altro il fatto che questi ex-punk (la loro prima incarnazione si chiamava Konfettura, attiva fino al '96) abbiano passato gli ultimi tre anni collaborando col Teatro Valdoca, musicando e inscenando spettacoli, mettendosi in gioco fino alle radici pur di soddisfare un desiderio d'inusuale, d'inesplorato, di scoperta. Una scelta coraggiosa, ma soprattutto una scelta intelligente.
Posso stare qui a (de)scrivervi l'incendio di synth, le pennate seriali, l'impeto quadrato del drumming e lo sfarfallio minaccioso dei campanellini in Phase-difference, di come tra di essi si avvertano suggestioni kraute e umori spaziali Air. Oppure riferirvi di come il breve reading Io guardo spesso il cielo (scritto e recitato da Mariangela Gualtieri, autrice di tutte le liriche del disco) evochi il fatalismo senza requie de Le Nuvole di De Andrè, un pò come i palpiti terrorifici di piano tra ghigni di corde e tastiere, voce cadaverica e drumming a ghigliottina di Ossicine rammentano la teatralità nevrastenico-apocalittica degli OvO.
E poi ancora dei Royksopp chiesastici che balenano tra i languori struggenti di organo, le brume di vocoder e lo zampettio digitale in Nothing infinity reality (prima di quella chitarra corposa e vibrante, un pò icona e un pò parodia della chitarra-segno a cavallo tra sessanta e settanta). O della breve ballata (30 sec!!) à la Marlene Kuntz di Giorni, bastevoli a scolpire un bassorilievo di meccanicistica apatia.
Potrei scriverlo anzi l'ho appena fatto, ma ognuna di queste sensazioni, ognuno di questi rimandi è un filo sottile che si scioglie dove io ascoltatore finisco, facile quindi che suonino improbabili o anche assurdi a chiunque altro. Mi sembra invece innegabile il fascino inquieto dell'insieme, come se agli Aidoru interessasse rendere visibile la minaccia invisibile, la rovina annidata nei gradi di separazione che conducono lo stare tra altri esseri senzienti in mezzo a queste macerie meravigliose.
Ebbene, 13 Piccoli Singoli è come un volto che incroci e non scordi, lo sguardo che schianta i presupposti, la parola che tradendo se stessa (il proprio senso, il suono, il segno) strappa un velo alla verità. Di questo parla in qualche modo la (non casualmente) centrale Parole porte parole ali, soul stranito d'elettronica e buio, vene profonde d'organo e ticchettio sintetico (il trip hop dietro l'angolo), il canto che si getta oltre la propria fragilità a denunciarsi vuoto, chitarra densa ma sfrondata, come sul punto di cadere dai trampoli tra i fumi del campo di battaglia, le voci che si scambiano e annullano e accavallano nella lunga coda, ospite gradito il vocalist John De Leo dei Quintorigo.
Quintorigo a cui viene da pensare anche per la fusion swingante della conclusiva Se la parola amore, il piano in resta, il canto nevrotico e un teatrino a mitraglia puntati sulla discrasia insanabile tra significante e significato. Con tutto ciò, il momento migliore del programma arriva con la traccia 11, introdotta con grande opportunità dalla marcia sordida e impetuosa di Preludio Op. 28 n°2 (cover di Chopin!): s'intitola Fas 3 bis ed è un soul-jazz cartilaginoso che potrebbe partorire un Vincent Gallo sovrastato dal fantasma di Tenco, le chitarre indolenzite, il piano in punta di dita, quindi la voce di Morena Tamborrino (cantante e attrice) colta da nevrastenia progressiva - un pò come la Beth Gibbons in vena d'asprezze etiliche - che va a cucire un finale di lacerante disperazione. Da cui si esce lacerati.
Dopo l'ascolto, resta la persistenza di questo suono che si gioca fuori contesto, fuori ruolo, suadentemente demodé. Un suono che se ne sbatte accuratamente, per sbatterti in faccia il suo teorema di parole in punto di morte, di afasie incarnite, di civiltà atrofizzata (o sul punto di farlo).
Un gran disco.
(7.8/10)

Stefano Solventi