Ascoltare “Falbo” è come andare a vedere uno di quei film concettosi, di cui non si capisce nulla, ma che piacciono un po’ anche per quello. Voglio dire, il piacere, a volte, sta proprio nell’atto in sé, più che in ciò che se ne ricava. Ecco, questo album è così, piegato su sé stesso, un cubo di Rubik che lo tireresti a terra, perché qualcuno è mai riuscito a ricomporlo? Però poi lo raccogli e riprovi, perché, appunto, la bellezza sta nel provarci. Balbo si presenta con scarne credenziali, e dovunque leggo che è solitario, serio e risoluto, e ciò non fa che aumentare la simpatia che provo per lui. Simpatia che, è vero, nasce già da quell’esporre in copertina un bambino in stile Mattel (forse proprio lui stesso) e delle tette in multicolor, che fa tanto macelleria sonora. Quello che succede poi non può che seguire queste premesse, e cioè musica sì, ma fatta a pezzi e non ricomposta, lasciata lì, esposta, come le tette, al giudizio dell’ascoltatore. Che poi, più che di musica, forse sarebbe meglio parlare di (r)umorismo melodico, di scorci sonori fatti di voci, macchinette per tatuaggi, bassi, percussioni, dialoghi fra muti, incudini e martelli, live electronics, e-bow, strumentame vario. C’è anche una chitarra, che strano, ma nel mezzo si perde un pò. Se c’è una definizione per tutto ciò, un’etichetta, ecco, a me sfugge, e non è che sia un male. Il tutto dà vita ad un flusso di difficile percezione ed impossibile conduzione ad unità - ed è qui che subentra Rubik - ma di assoluta e perversa attrattiva. Non si capisce nulla, ma, dicevo, piace anche per quello. Lo metti lì e, a differenza di tanti altri suoi colleghi, Balbo ti impedisce di fare altro, perché ti risucchia in un vortice fatto di tutto e di niente allo stesso tempo, e il gioco è riuscire ad arrivare alla fine sani e salvi. E poi, se hai qualcosa da dirgli, all’interno del cd c’è anche il suo numero di casa. Altro che solitario.

Andrea Romito