Intorno agli anni ’80, assistemmo alla consunzione del Festival di Sanremo. Vi furono delle edizioni assolutamente comiche, dove si esibiva chiunque: bastava un pò di stravaganza per stare lì. Ne assistevamo sgomenti i partecipanti che erano belli perché sembravano buffi, veri e propri saltimbanchi inconsapevoli. Furono edizioni oscene, e avrebbe dovuto presentarle Aldo Nove per dare ad esse l’istanza “metacritica” in grado di riabilitare ciò che in apparenza sembrava scalcagnato. L’estetica moderna del riciclo ha formidabili colpi in canna a patto che si snodi tra eccessività, autoironia, consapevolezza storiografica.
È d’obbligo qui dichiarare una certa difficoltà avvertita durante l’ascolto e l’assimilazione del nuovo disco dei Maisie, disagio provato soprattutto nell’immaginarmi le fasi cruciali che hanno portato il loro lavoro prima ad essere un disco di musica pop cantata in italiano, e poi a stabilire quanto di aggiunto vi sia nella produzione del disco, quasi di “extra”, se questo termine venisse ad intendere non una produzione “indiretta” ma un vero e proprio ingresso nella band dei napoletani Paolo Messere e Carmen D’onofrio. M’immagino i nostri beniamini Maisie entrare in un vero e proprio studio di registrazione con del materiale che viene di volta in volta lavorato, limato, smussato, a cui si aggiungono altri musicisti, ospiti, e via dicendo. Ciò porta un cambiamento e sostanziale nell’intera modalità di concepimento del lavoro, per chi, come me, era abituato all’ascolto delle produzioni precedenti, veri e propri capolavori della “now-wave” italiana!
Allo stesso modo con cui Bobby Conn rileggeva il glam, i Masie decrittano la musica pop italiana, in particolare quella “sanremese”, in un via vai di stili, acconciature, effetti più o meno speciali ed arrangiamenti di notevolissima complessità come possono esserlo quelli di “Gommalacca” di Battiato: un vero arabesco multifunzionale, che guarda dal folk all’elettronica senza rimanere imbrigliato in niente di definibile, consuetudinario. Guardano evidentemente a quella deriva sanremese poppettara ma scazzata, già frutto di contaminazione e deriva, e lo fanno con quella solita intelligenza che contraddistingue la loro produzione, ma stavolta con qualcosa che appare straordinariamente professionale, speciale. Se fossimo in un saggio di Perniola lo definirei “Mutant-pop” questo, non lontanissimo dalla nipponica bulimia a cui siamo abituati dalla Snowdonia, tendente ad un equilibrio talvolta esatto tra gioco e serietà, ma sarebbe ancora troppo stiloso come atteggiamento, ancora troppo autoindulgente rispetto alla spossatezza con cui invece si presenta questo disco, ovvero sempre ad un passo dal suo limite, dal suo rovesciamento. Gli stessi testi, che sembrano scritti (e volutamente si spera) in tono giocoso come fossero frutto di una quindicenne frungolosa e incerta, in certi momenti diventano ferenti, rattristanti ed ispirati (“E non eri nessuno se non amavi i poeti, io fingevo di amarli per pura viltà. E arriva la crisi dopo la scuola, arriva la vita che ci ucciderà”; “Ho messo da parte un altro cadavere perché non credo più a niente”; “C’è un deficit di realtà, me ne accorgo chiaramente da come cammina la gente e una vicina con la borsa della spesa, ingombrante anche se non pesa”) e questo avviene proprio quando un attimo prima sembrava lo scherzo a farla da predominio. Eppure nella complessità e risolutezza formale con cui si presenta questo nuovo lavoro dei Masie convivono due anime, che appartengono a due sistemi sonori differenti, e ciò si avverte soprattutto quando, come nella bellissima “Sottosopra” (canzone cantata da Bugo) la produzione viene affidata totalmente a Paolo Messere, che opera tenendo presente ciò che gli riesce meglio, e che in effetti è totalmente diverso da ciò che i Maisie sono sempre stati. I brani più sconvolgenti sono la tuxedomooniana “Morte a 33 giri”, “L’inverno precoce” dove i Cure spadroneggiano, i ritorni della Rettore in “Finché la borsa va lasciala andare”, l’intro che forse commemora Luis Miguel. Il resto del disco è godibile, certo, ma soffre di una produzione troppo sbilanciata sul versante Blessed Child Opera, manca di quella carica frizzante, festosa, leggera, di cui i Maisie si sono sempre nutriti non solo come marchio snowdoniano. Ed invece tiene dentro la tinta chiaroscura, soprattutto dei primi esordi della formazione napoletana. Ci sarebbe un’altra lettura evidentemente, e provo a snodarla. L’ipotesi che questo fosse un disco davvero di musica leggera, con i suoi pro ed i suoi contro. In ogni modo questa soluzione non renderebbe più emozionante il lavoro. Si sente un logico salto di produzione, di qualità sonora, ma resto dell’idea che i Maisie dovevano starsene in casa e registrare su microfoni di 3 euro come hanno sempre fatto. Io spero che si siano divertiti un casino perché il disco ha una risolutezza davvero rara nel panorama della musica “indie” italiana, tuttavia è proprio questa doppia portata, questa doppia natura del lavoro, o meglio i momenti in cui non avviene integrazione totale ed i brani sembrano o dell’una o dell’altra formazione, che si sentono forse dei limiti nella scelta del mood adatto. Il prossimo Maisie sarà dedicato al revival dei Cugini di Campagna, metastorica formazione di cui tutti noi serbiamo ancestrali ricordi e capogiri.

Salvatore Borrelli