I bambini vivono in terza persona. Sono una tenera, fragile, lucrosa terza persona. Fanno “oh” per la consolazione e il rimorso e la meraviglia della nostra coscienza sporca. Eppure, va tutto bene. Fa tutto arredamento nella cameretta fitta di ammennicoli antiurto, modulari, colorati, radioattivi, psicoattivi. Dove l’importante, come diceva Gaber, è non fumare.
A questo punto, entra in gioco Snowdonia. E che fa? Offre ai bambini la prima persona. Li mette in gioco. Nel gioco intrattabile, ispido, astruso che è - a volte - il rock “indie”, che a queste latitudini fa presto a chiamarsi “underground”. Quindici artisti (tutti italiani tranne gli statunitensi Toychestra) per quindici tracce cantate assieme a bambini rigorosamente dilettanti (fa sorridere e intristire doverlo precisare, ma tant’è), spesso nipoti o cugini o figli del vicino. L’obiettivo, naturalmente, condiziona la scrittura, che spesso bazzica il terreno del fiabesco, dell’onirico, del meraviglioso. Però da questo incontro chi ne esce davvero rinnovato, attenzione, sono proprio i bambini, e quindi la nostra di loro percezione (dura a morire, la terza persona).
Sono, sembrano, bambini autentici: malferme le tonalità e il timing, implume la drammatizzazione, appena qualche barbaglio d’impostazione qua e là. Bambini veri, lontani un abisso dai carletti perfetti, dai coccodrilli saputelli, dai genius hollywoodiani. Bambini lietamente impuri, contaminati dal viverci accanto, con già in nuce la loro piccola schiavitù catodica e globalizzata. L’intento è assieme bislacco e geniale, la combinazione è improbabile, e il risultato non dissipa certo queste sensazioni. Anzi, le rafforza. Ed è un risultato strepitoso. L’improbabilità di fondo sostiene ogni canzone, le sposta su un equilibrio nuovo, le fa arrabattare di favola e incoscienza (beate l’una e l’altra). Lucide come un sogno senza misura. Innocue e crudeli come la dolcezza. Indimenticabili, come la dolcezza. Situazioni sorprendenti, disarmanti, un’angoscia per ogni incanto, come il downtempo in panavision dei Land (la sofisticheria à la Zero 7 di Ai limiti), come l’electro aliena e sbrigliata (tra The Books e Royksopp, poniamo) degli Amari, come il prog-folk onirico dei Blessed Child Opera.
Approcci diversi, diverse densità e tensioni e livelli d’esercizio, ma la stessa rivelazione fragrante in ognuno, come uno squarcio nel tessuto della comunicazione “normale”, che il compilatore non compila bene, che la fotocamera non sa digitalizzare. Incomprimibile, intraducibile. Come nell’ineffabile insidia lalleggiante targata Aidoru, nella struggente collosità post-pop dei Maisie, nella burattinesca perversione di Taxi_so far. Ci sono i Marlene Kuntz (che riadattano Bellezza) ed è impossibile non citarli, ma davvero ogni episodio meriterebbe una chiosa: dallo straziante delirio house/funk dei eh300244a (velvettianamente intitolato Voce bianca/rumore bianco) all’irresistibile filastrocca nonsense dei Saint ferdinand, dall’hip-hop sordido e birichino degli Hello daylight fino allo sberleffo giocattolo tirato dai Mariposa all’icastica Male di miele. E poi tutti gli altri, che non cito per la ghigliottina dello spazio (scusate).
Insomma, un’idea strepitosa tiene al guinzaglio questa combriccola di (in)trepidi esecutori sulla cresta di uno stato prossimo alla grazia. Poi, naturalmente, c’è l’imprinting Snowdonia, nell’impasto di leggerezza sferzante e implicazioni dissimulate, nel libretto che al solito anzi più del solito è un pozzo di trovate e mancanza di riguardo (irresistibili le testimonianze autografe dei bimbi).
Disco dell’anno, per ora. God bless Cinzia e Alberto. (8.0/10)

Stefano Solventi