Le sorprese di casa Snowdonia. Da Brescia alla mia cuffia injackata nel computer, qualcosa di fresco, orecchiabile e personale, sporto con l'eleganza menefreghista ma precisa di chi prende a calci una lattina per le vie della città, e arriva col suo trofeo fin sotto casa, per dargli un ultimo calcio nel tombino. Jet Set Roger è un personaggio, non c'è dubbio, anche se qui sembra defilarsi nella maggior parte dei casi nella posizione dell'osservatore e del narratore di storie altrui. Ma è esattamente questo il ruolo apparentemente timido che si è scelto, e m'immagino che a vederlo dal vivo, con i suoi (dicono) travestimenti e le sue pose (pare) da entertainer, ci sia da divertirsi un non so che in più. Basso-chitarra-synth-batteria neo-proto-wave introducono l'album rivelando il doppio gioco del progetto di JSR, che arrangia con controllo il primo brano, “La vita sociale”, per massimizzarne la spinta pop, come se Battiato, invece di darsi al “centro di gravità permanente”, alla fine avesse optato per “la musica finto-rock” e “la new wave italiana”. Fin da subito affascina l'attitudine di Roger: il testo, un piccolo auto-ritratto da misantropo beat, vola sull'ironia di semplicissime rime e sulla delivery giocosa ma ferma, come una rielaborazione indie di uno sketch da “comedy show”, con voce e punto di vista fra il tenero e il sarcastico, e sfumature narrative e poetiche ad effetto.
Roger al piano, Andy dei Bluvertigo al sax, e parte “Canzoni tristi”, virando verso una ballata da Roxy Music padani, dando voce ad un cantante-personaggio serenamente afflitto da esistenzialismo da balera, o forse solo da un carattere malinconico. Il glam-punkettino di”Stupido romantico” porta avanti il gioco con un nuovo ritratto maschile, mentre scopre al meglio l'afflato contenuto ed ironico nel canto (forse volutamente) monocorde e nei testi, che sembrano affondare nel garbato stile caricaturale di personaggi da commedia leggera purtroppo perduti: penso ad esempio a un Walter Chiari o a un Nino Manfredi, nelle loro apparizioni televisive degli anni '60, al loro pronunciare caratteri in modo sempre calibrato ed affettuoso. Cabaret senza veli, “La madre di Rachele” alterna vaudeville e delizioso ritornello, mentre “Piccolo re della notte” ha sfumature nuove ed argute per un altro personaggio maschile, in un quadretto addolcito dall'empatia e dalla voce, che finalmente svela il suo dinamismo. “Il tossico e il commesso” torna a rokkare (sempre con vezzi glam) e dipinge con pochi tratti netti una scenetta di drammatica “presa di coscienza” sociale. Si passa a ”Playboy”, e io non posso che riconoscere un non so che dal sapore Alberto Fortis (certo non nel canto di Roger, tutto controllo e inclinazione narrativa), soprattutto nella melodia e nel brio del piano, che mischia pennellate soft-prog a contorni pop-rock. “Come si fa” glamma sul tema del perdersi di vista quando le scelte personali portano a strade diverse, “Al cinema” prosegue raccontando in una scena ironica e amara la fine di un amore. Poi Roger approda a “Il bar dei miei sogni”, che musicalmente sembra una parodia dei Cure (suonati a una festa di paese), ed è chiaro, a questo punto, che la sequela di personaggi e storie, può solo essere scaturita da lunghe sedute ispiranti fra i tavoli dei bar preferiti, insieme a compagni di bevute dai tratti del tutto identici a quelli descritti in questi versi. Questa galleria di volti e piccole storie mi fa pensare all'infanzia e all'adolescenza che ho vissuto in un paesello del Nord Italia, dove la vita della comunità girava soprattutto intorno ai quattro bar a disposizione, quasi certamente con sfumature più interessanti di ciò che accadeva a chi gravitava intorno alla parrocchia…
Si chiude con “Sottacqua”, un ‘piccolo omaggio a H.P. Lovecraft, eros e thanathos sotto una tenda alla fiera del pub rock revival, e con “Un'altra scusa”, uno dei brani più pop e dinamici, in cui Roger finalmente si scompone un po' nel canto e lascia affiorare qualche nervo (più Fortis, più Fortis!) da sotto la maschera: forse, dopo aver sfiorato Lovecraft, ha iniziato a fondersi con un proprio doppio incluso fra i personaggi della sua galleria. Disco presuntuosamente senza spocchia, “La vita sociale” mi fa pensare e sperare che in Italia ci siano molti altri pezzi nascosti di pop vitale e non fashion-oriented come questo. Un qualcosa che crea identificazioni, racconta storie ed intrattiene: una funzione culturale e sociale di base che bisogna riprendersi ed usare per il semplice fatto di essere vivi.

Davide Ariasso