Svegliarsi in questo posto assurdo, un luna park d'antan, con l'apollo e i calci in culo, una radiolina accesa accanto alla grassa signora sudata dello zucchero filato, la puzza della porchetta nelle roulotte dei paninari che guardano in tv la Carrà scosciarsi mentre farciscono un sandwich. Guardarsi intorno, in quell'angolo buio una montagna di spazzatura familiare, più avanti il circo coi nani e i trapezisti e i clown, camminare ancora e ritrovarsi nel mezzo di una festa di liscio per vecchi annoiati, opportunamente piazzata tra un ospedale e il cimitero. Lì sulla destra, poi, una discoteca sotterranea che sputa house e ragazzi in canottiera… E proteste lontane di madri pettorute, che con questo casino non si può dormire, che domani si va in chiesa presto, mentre i figli nel buio della camera rincoglioniscono con un joystick in mano e i ragnetti blu ai piedi lerci.

E nelle orecchie questa colonna sonora, provenire dalle casse esagerate delle giostre, dalla radiolina dello zucchero filato e dalla tv del paninaro, dall'interno del tendone del circo, dal gruppo che suona il liscio e dalla disco e dalla chiesa e dal vecchio videogioco… c'è tutto questo e anche di più in Balera Metropolitana dei Maisie , un disco spropositato, quasi volgare, come volgare è il mondo che vuol rappresentare che a ben guardare è proprio questo in cui mi trovo.

Solo un secondo di storia per raccontare di questa band messinese, viva e pulsante da più di dodici anni, partorita dalle menti ambiziose di Alberto Scotti e Cinzia La Fauci, band dal percorso atipico, nomade, dal cantato in inglese nei primi quattro inaccessibili album, proposte schizoidi da qualche parte tra i Residents e Frank Zappa, convertitosi all'italiano in Morte a 33 giri del 2003, meno ostico nella formula, per giungere a quello che molti hanno definito il loro capolavoro, questo Balera Metropolitana , doppio album di 44 (quarantaquattro!) canzoni incise registrate e mixate in mille posti lontanissimi tra loro, da Seattle a Salisburgo, da Lecce a Diolaguardia in provincia di Forlì-Cesena.

Risulta impresa titanica recensire in poche parole una tale vagonata di idee e generi, deliri e bestemmie, proteste e cazzeggi. In tutti i brani è tangibile, al di là dello spaziare tra le influenze più disparate (e disperate), una sorta di brusca volontà di gettare la maschera, dire le cose come stanno, nel modo più semplice, didascalico, brutale possibile: ritrarre il brutto come appare, brutto appunto, generare canzoni di una bruttezza talvolta disturbante, annichilente, che ti invita a passare al livello successivo, essere quel brutto, impersonarlo, viverlo, sentirlo necessario.

Ebbene le canzoni. Il cantato, soprattutto femminile, è affidato in massima parte alle voci bellissime e stranianti di Cinzia La Fauci e Carmen D'onofrio , salvo l'incursione di inaspettati graditi ospiti. I generi, come detto, sono vari ed eterogenei, ma se dovessi citare tre nomi, che più degli altri mi sono venuti in mente attraverso i ripetuti ascolti, sarebbero Baustelle (che tra l'altro sono presi di mira in negativo) nelle trame vocali, Elio e Le Storie Tese nell'attitudine, e, last but not least, i Portishead nelle ambizioni sonore.

Nel primo dischetto, tra le altre cose, si racconta della carriera nel porno di Maria su base house tamarra, si provvede a una mesta elegia funebre coi cori delle anziane in Quando morì Cristicchi (fu un grande dispiacere), si vive la morte con gaudio (purchè si mangi) nei nonsense de La centrale nucleare. Dei Baustelle sguaiati cantano le ronde e il razzismo nella suggestiva Hanno ammazzato un bambino, riecheggiano invece gli Offlaga Disco Pax nel recitativo della politicizzata Nostalghia Canaglia. La bravissima polistrumentista statunitense Amy Denio presta la voce nel trip-hop virato Sigur Ròs di Your Heavinly-twined limbs e dell'ermetica Si sveglia, poi ricama di sax il lucido ambient di Stereo a cassette (un pezzo quasi serio finchè non scopriamo che se “il nastro s'inceppa, la Nannini sembra un alpino” ). Qui appare lo spettro vivido di Beth Gibbons e le armonizzazioni dei suoi Portishead, e anche altrove, in 3msc, e, nel secondo disco, nella stralunata Mogol e Panella e ne Il cielo è spoglio, uno stralcio di poesia, un fiore in una discarica.

Anche nel secondo cd c'è spazio per divagazioni psicotiche assortite, da La banana e il parassita in cui Elio rifà Cochi e Renato, a W le aliene! che pare uscita dal repertorio di un'incattivita Cristina D'Avena, dalle gemelle Kessler schizofreniche de Il giorno più bello della mia vita alla cover salsa de La licantropia di Pippo Franco. Di contro, bellissimi brani restano il blonderedheadiano Piante e cadaveri, l'emozionante litania di n.79 – ISTITUTO MARINO (Via ortopedico), più Almamegretta che Banda Ionica, e la seguente cover della stessa canzone interpretata da Mario Castelnuovo, lieve e quasi fuori posto. Intermezzi strumentali appaiono e scompaiono un po' ovunque, divagando visionari tra lounge, Pulp Fiction e videogiochi giapponesi.

Citazione di merito, infine, va ai quattro migliori brani dell'opera, secondo il sottoscritto la title track, in cui la techno incontra la festa di paese mentre Teresa ci racconta la sua balera metropolitana, L'amore in città dove una sigletta televisiva fa a pugni con la fotografia impietosa di una realtà quotidiana, Ivana e Gabriella, commovente crooning romanesco a due voci (quella maschile affidata a Flavio Giurato) debitore della somma lezione di Fabrizio De Andrè, e la conclusiva amara Niente da scoprire (“Non c'è niente da scoprire nella gente” ).

Era difficile, e me ne scuso, non dilungarsi nel parlare di un disco esagerato, prolisso, un magma liquido che inevitabilmente si espande e penetra ovunque. Né mi permetto di contestare la scelta di una band che resta atipica, poco accessibile, e in alcune circostanze indigesta, un po' come indigesto è il mondo che dipinge senza paraocchi né peli sulla lingua. Un disco di merda, allora, spazzatura circondata di spazzatura di cui, volenti o nolenti, siamo parte integrante, produttiva, necessaria. E morente.

Daniele Mengoli