E con il racconto L'Isola della scrittrice Alda Teodorani, ritroviamo finalmente Le Forbici di Manitù con uno dei loro lavori più equilibrati e convincenti: li attendevamo da quel Tagliare che nel 2005 ha costituito una sorta di “rekapitulacija”, per dirla alla Laibach (mmh, a dire il vero la citazione del gruppo sloveno non mi pare affatto fuori luogo). Va subito detto che, musica e parole, sembrano davvero fondersi in un'unica unità di intenti, generati da una medesima ispirazione, senza fratture stilistiche.

Ne L'Isola tutto si interseca, tutto si compenetra, anche gli angoscianti disegni di Emanuela Biancuzzi (nel curato booklet di 48 pagine allegato al CD), chiamata a “comporre” la colonna visiva al fluire della narrazione. La storia racconta della deriva di un uomo e una donna, forse un tempo uniti dall'amore, verso le isole in cui la loro esperienza si è dispersa, discendendo in una dimensione onirica che riecheggia gli orrori vissuti negli anni insieme. Cose sepolte sotto il cuscino. Cose che fanno male, appuntite.

L'Isola del titolo è la meta del viaggio che questa donna e questo uomo si scelgono come ultima sponda, una sponda estrema, nel loro tentativo di ritrovare ciò che (forse) una volta gli apparteneva. Anche nei momenti in cui il reading è affidato alla stessa voce di Alda Teodorani, Le Forbici sanno ricamare momenti di intensissima allucinazione (vedi lo strumentale Dal Profondo o L'Isola dei MortiBattigia). E proprio nel riarrangiamento de L'Isola dei Morti di Rachmaninoff , nell'album divisa in tre fasi (Approdo – Battigia – Cordame), che già si manifesta l'estro indefinibile della combriccola costituita da Manitù Rossi, Vittore Baroni e da tanti altri amici (tra i quali il chitarrista Daniele Carretti e il polistrumentista Enrico Fontanelli degli Offlaga DiscoPax), uniti dalla medesima obliqua strategia.

Ma la porta d'ingresso (e allo stesso tempo, punto di non ritorno) nel labirinto di questa dolorosa storia è il minaccioso incedere di Fame, uno dei brani chiave dell'intero lavoro. Questa longeva formazione italiana di sperimentatori oltranzisti festeggia, in modo del tutto personale, i suoi oltre venticinque anni di sotterranea carriera: stavolta l'espressione sonora è affidata non alle caustiche sperimentazioni che li ha contraddistinti nel loro excursus sonoro, bensì a dilatate e disturbate (questo sì) composizioni, nelle quali la chitarra non è mai aggressiva, anzi quasi sempre delicatamente arpeggiata. Tutti i loro riferimenti musicali (Faust, Wire, Can, Neu!, Tuxedomoon, Pankow, CCCP/CSI), vengono frammentati in porzioni talmente minute (quasi un pulviscolo) e mescolate insieme, tali da perdere quello che era il quadro d'insieme: solo l'arte de Le Forbici di Manitù rimane, in grado di reinventarsi ogni volta, in barba a convenzioni e a generi. Sicuramente stavolta si gioca attorno ad una personale concezione del post-rock, anche se la formula è qui elaborata per essere molto vicina ad una new-wave tetra, nel suo lento dipanarsi, il cui dispositivo viene innescato da una artigiale “elettronica da camera”.

La formazione aveva già provato a cucire la propria musica attorno ad “altro”: da ricordare la pubblicazione nel 2003 della sonorizzazione del film Terrore nello spazio (1965) di Mario Bava . Anche allora il risultato è stato di grandissimo pregio. Ne L'Isola dei Morti – Cordame, pare resuscitare (carne, sangue e basso) lo spettro dei primi Cure. Non c'é da stupirsi: l'orizzonte sonoro de Le Forbici è anche quello. Si scivola fino in fondo, fino al tempo della follia definitiva, senza neanche avere il tempo di accorgeresene: è una spirale che nel finale accelera, quasi facendo perdere consapevolezza. E così in un attimo ci si ritrova nella liberatoria desolazione di Dementia e poi ancora nell'eccelsa amarissima conclusione de Il Tempo dell'Obbedienza , che musicalmente reclama a gran voce l'eredità del gruppo di Blaine Reininger e Steven Brown.

Forbici, lame, tagliare. Queste tra le ultime parole del racconto. Chissà se durante la stesura era già certo il coinvolgimento della band: sicuramente si è trattato di spiriti affini, di suggestioni condivise. Divise, sezionate, tagliate. E alla fine ricomposte.

Questo non è un viaggio da fare comodamente seduti. Si sobbalza, fa male il sedere, gli occhi si sbarrano. Ma tra un dolore e l'altro c'é tutto il piacere di sapere che si viaggia (e quanto lontano si viaggia!) su un veicolo dalle forme assurde come in una illusione ottica, forme contrarie da ogni lecita aspettativa made in Italy eppure così orgogliosamente made in Italy.

Stefano Fasti