Si era fatto buio e la candela era ormai poco più che un mozzicone. La inclinai e versai qualche goccia di cera sulla superficie fredda del tavolino, poi ne presi una nuova e la fissai su quella base morbida e calda. Dopo aver estratto un fiammifero e averlo strofinato sul bordo ruvido della scatola, avvicinai la fiamma allo stoppino ancora vergine.
Passarono alcuni secondi prima che sembrasse aver attecchito. Spensi d'impulso il cerino ormai consumato per timore di bruciarmi i polpastrelli ma, appena la nuova fiammella non venne più alimentata, s'affievolì spegnendosi.
Dalla finestra socchiusa, il vento s'insidiava nella stanza con dei sibili oscuri e mi accarezzava il collo, gelido. Ebbi un sussulto di timore, sporsi la testa appoggiandomi agli infissi e fui travolto in pieno viso dalla velocità dell'aria. A meno che non fossimo entrati in una galleria senza che me ne fossi reso conto, la notte era una cappa di fuliggine impenetrabile. Nonostante strizzassi gli occhi nel tentativo di percepire i contorni del paesaggio attorno, non riuscivo a vedere nulla che non fosse quel nero asfissiante.

D'improvviso un cono di luce si stagliò prepotente nell'aria. Non so dire come ma mi ritrovai un lembo di lenzuolo stretto attorno al collo e la fronte madida. Nel ventaglio luminoso che s'era ricreato sulla parete scorrevano danze lievi di ombre cinesi, accompagnate dalla melodia soffusa di un pianoforte. Una voce ronzante raccontava una fiaba, ne ero certo nonostante non riuscissi a distinguerne le parole.
La porta di fianco al letto si spalancò. Fui travolto dal frastuono della strada, le auto sfrecciavano, i bimbi piangevano, o ridevano, non so. Riuscii a distinguere il lamento malinconico di un flauto, mi sembrò capace di ipnotizzare tutti i rettili del pianeta. Da bambino guardavo per ore lo stesso identico cartone animato: un uomo in turbante, carnagione scura, soffiava dentro un flauto a tre fori mentre, dinanzi a lui, un lungo serpente sbucava da una cesta di vimini. Mi resi conto che le punte della dita mi si stavano riscaldando inaspettatamente, abbassai lo sguardo e mi vidi sbuffare dentro un flauto puntellato di infiniti fori. Tentai di fermarmi: non ci riuscii. Il cono di luce ora rifletteva il viso di mia madre, stilizzato con tratti leggeri violacei. Piansi, e ogni lacrime che mi cadeva sulle guance rigava l'ombra della sua faccia che a contatto con l'acqua si sformava, quasi fosse d'inchiostro. Solo quando riuscii ad avvicinarmi, mi resi conto che quelle che prima m'erano parse linee rossicce, non erano altro che file interminabili di formiche disposte a disegnare lineamenti di donna. Mi ritrovai il corpo completamente coperto di formiche. Urlai e mi si riempì anche la bocca. L'ossigeno intorno diminuì all'improvviso, i muri mi venivano addosso con fare incalzante. Li toccai, li sentii freddi, metallici. Presi a batterci contro con i pugni, puntando i piedi. Non cedettero. Non riuscivo più a muovermi. All'esterno, il flauto era soffocato dai rumori.
Non ho idea di quanto tempo passò prima che riuscissi a riprendere conoscenza ma sono certo di una cosa: aperti gli occhi,  distinsi subito due mozziconi di candela su un tavolinetto coperto di cera. (8,5)

Annachiara Casimo