Già soltanto idea di dedicare un album marcatamente ambient-elettronico all'acqua e, più esattamente, all'acqua intesa come collante narrativo dei primi ricordi della propria vita non può che incuriosire e invitare a un ascolto quanto meno attento e partecipativo.
La copertina stessa di “Uri” – ancor prima delle sue divagazioni rumoristiche – ci introduce in un mondo opacizzato e suggestivamente ristagnante, in quel ricettacolo intrigante di immagini sfuocate e fluttuazioni oniriche che popolano l'anfratto più remoto della memoria episodica di ogni essere pensante.
Il ligure Haxel Garbini si arma di tanta pazienza, di una manciata di strumenti fidati (elettronici e no), di qualche giocattolo sopravvissuto al tempo e di uno stetoscopio usato a mo' di microfono per vivificare il suo primordiale patrimonio mnemonico attraverso un documentaristico industrial pastorale fatto di certosino field recording e sovra-incisioni esasperate. Una minuziosa registrazione sul campo per catturare anche il più impercettibile vagito naturale, da trasformare poi in vivida emozione attraverso un'artigianale rielaborazione di suoni che, all'occorrenza, non si fa mancare provvidenziali tepori acustici (violino, fisarmonica).

Certo, alla base di tutto ci sono un'incontenibile voglia d'introspezione e un palpabile egoismo comunicativo che uccidono anche il minimo barlume di spettacolarizzazione, ciononostante meritano almeno un ascolto i sette minuti di alba cinguettante di “Emergere fluttuare”, i suoni placentari del doppio episodio di “Estate 1984”, il noise mono-frequenziale di “Film sulla psicocinesi” e le pigmentazioni velatamente orientaleggianti di “Sempre lo stesso ragno”.
Se volete, consideratelo pure una trasfigurazione ancor più bucolica e DIY di Christian Fennesz. Non potrà che fargli piacere.

Antonio Belmonte